Sperimentazione e Autoproduzione - di Etero Genio - no ©

"Al produttore, che chiedeva il titolo di quel brano, Thelonious Monk rispose "Pensane uno!".

L'analisi di argomenti estremamente complessi quali sono sperimentazione e autoproduzione Richiede una comprensione, seppur superficiale, del come, e perché, si sono affermati soggetti quali il linguaggio, l'astrazione e la scrittura. In pratica è indispensabile comprendere i meccanismi dell'evoluzione, nel cui sviluppo la sperimentazione ha svolto un ruolo fondamentale. Ecco che prende quindi corpo questa ricerca basata su alcuni dati di fatto reali, su altri plausibili e, infine, su una serie di ipotesi, magari anche irreali e provocatorie. Giudicate voi.

Il linguaggio, e quindi la parola, è stato una delle prime forme espressive, cioè destinate a comunicare dei pensieri o delle idee, di tipo astratto. Gli abitanti di un villaggio di montagna del sud della Cina, che parlano soltanto il loro dialetto, non comprendono la parola gatto ma comprendono il termine onomatopeico 'miaaaoooooo'. Questo perché gatto è una convenzione, un'articolazione di suoni astratta comprensibile solo a chi ne conosce il significato prestabilito.

La scrittura è un elemento in stretta connessione con il linguaggio, in quanto serve a fissarlo su un supporto. La prima forma, o forma originaria, di scrittura non è nient'altro che la memoria. Utilizzando la memoria l'uomo primordiale comunicava e trasmetteva le proprie esperienze ai suoi simili e alle generazioni future. La scrittura su supporto è semplicemente un surrogato della memoria: per comprendere meglio ciò è sufficiente riflettere sulla lista della spesa, quando, per evitare di dimenticare qualcosa, si dice: "mo' me le scrivo" (questo sarebbe infatti il cosiddetto 'pro-memoria'). Ci sono ancora dei popoli che hanno tuttora la memoria quale unico 'elemento di scrittura', e così si tramandano di generazione in generazione la loro storia, le loro tradizioni, le loro credenze e tutto quanto è essenziale alla loro organizzazione sociale e alla loro sopravvivenza. Proverbiali sono i racconti degli anziani hawaiani, storie tramandatesi di secolo in secolo che risalgono alle origini di quel popolo e alle vicende che li hanno portati, partendo dalle isole polinesiane e solcando le acque del pacifico, a colonizzare quelle isole situate nettamente più a nord rispetto alle loro terre d'origine.

Perché l'uomo, a un certo punto, è arrivato alla scrittura? La scrittura in quanto tale, cioè come noi la conosciamo, nacque nel momento in cui una organizzazione sociale più complessa, con una specializzazione sempre più definita dei singoli individui e con la necessità di comunicare con altri gruppi socialmente organizzati, non poteva più, per ovvi motivi, affidare alla memoria tutta la complessità strutturale che la contraddistingueva. Un corriere che doveva portare dei messaggi fra due piccoli nuclei tribali, per esempio, poteva fare affidamento sulla memoria, se però deve svolgere una funzione di collegamento fra due grandi città e quindi portare decine di messaggi contemporaneamente, lo stesso corriere, non può certo utilizzare lo stesso sistema di appunto.

Logicamente la scrittura richiede l'utilizzo di simboli convenzionali destinati a rappresentare concetti ben precisi. È comunque errato identificare la scrittura con quella che noi utilizziamo, essendoci nella realto delle forme di scrittura, come quella cinese o quella giapponese, basate su principi affatto diversi. I sistemi di comunicazione degli Incas, in un impero che copriva in verticale quasi l'intera America del Sud, erano anch'essi una forma di scrittura, seppure non basata su segni grafici ma su altre convenzioni, in buona parte ignote, quali possono essere dei nodi fatti su delle cordicelle. Quindi, ancor più del linguaggio, la scrittura è una forma di comunicazione e di espressione astratta.

È incomprensibile come queste forme vengano comunemente accettate mentre di fronte all'astrazione in alcuni settori cosiddetti artistici, e che io chiamerei invece altre forme espressive, vengano fatte delle resistenze. Davanti a un Mirò è facile sentire dei commenti tipo: "Ma cos'è questo? Ci prendono per il culo. Potrei farlo anch'io", e altre considerazioni simili che nessuno si sognerebbe mai di fare di fronte a parole come glifo, glioassiale o glioma. Nei confronti della musica il discorso è ancora diverso, nel senso che la musica è una forma espressiva ormai da lungo tempo essenzialmente astratta. In questo caso ci sono resistenze nell'accettare come valide le forme meno astratte, come potrebbero esserlo degli strumenti utilizzati per imitare il suono di animali, oppure un'orchestra formata con richiami per uccelli e, infine, i cosiddetti 'field recording', cioè registrazioni effettuate in situazioni di vita reale.

Quindi, da una parte si critica il pittore astratto che non dipinge un leone nelle sue forme reali ma lo raffigura come una macchia di colore slanciata su uno sfondo di altri colori mentre, dall'altra, non si accetta il musicista che, invece di rappresentare il leone con strepitanti passaggi orchestrali, ne registra semplicemente il ruggito. Questo assurdo sta ad indicare come l'uomo diventi facilmente succube dell'abitudine e come, in quanto tale, sia agevolmente addomesticabile.

La rivoluzione industriale e la meccanizzazione hanno portato a un'ulteriore evoluzione dei sistemi di comunicazione, e la scrittura è stata progressivamente esautorata da forme tecnologicamente più avanzate come il telefono, il telegrafo, la radio, la televisione e, infine, il computer. Quest'ultimo è, al momento, la fase più avanzata nel processo di sostituzione della memoria, non a caso anche quella del computer si chiama memoria, e questo sta portando, per poco allenamento, a un progressivo indebolimento nella capacità individuale di ricordare le cose, gli avvenimenti, ecc. Ma qual è il rapporto fra l'evoluzione della scrittura, dalla memoria naturale alla memoria artificiale e l'evoluzione della musica? Vediamo come nasce la musica.

La musica, e tutte quelle che saranno poi le arti, nasce come una necessità di comunicazione che precede la parola. Per indicare agli altri la presenza di una preda, mettiamo un bisonte, l'antenato cacciatore si esprimeva a gesti (teatro), disegnando (pittura) o imitando il suono dell'animale (musica). L'uomo, per rendere più perfetta tale imitazione, ha poi iniziato a utilizzare degli oggetti, e in questo passaggio evolutivo è possibile individuare le prime forme di strumento musicale. La gestualità, nel momento in cui il piccolo gruppo tribale costruisce un proprio linguaggio, rimane quale elemento che permette la comunicazione con altri gruppi tribali padroni di un linguaggio diverso o di nessun linguaggio. Questo utilizzo della gestualità, ma anche del suono e della pittura, rimane valido ancor oggi; nel solito villaggio del sud della Cina, in mancanza di un interprete, il gesto, il suono e il disegno sono gli unici elementi in grado di permettere al visitatore la comunicazione con gli autoctoni.

Con l'affermarsi, presso gruppi sociali organizzati sempre più consistenti, di un linguaggio parlato che l'abitudine porta a considerare concreto, le forme di comunicazione realmente concrete sono andate paradossalmente ad assumere funzioni più marginali, fino a diventare 'elemento artistico' e, in quanto tali, a essere configurate, con il passare del tempo, come astratte. È facile comprendere il paradosso insito nel capovolgimento dei ruoli, soggetto concreto e soggetto astratto, che si è verificato fra il linguaggio e le altre forme di espressione, oppure fra il linguaggio usato per la comunicazione pratica e quello utilizzato come forma espressiva.

Col tempo queste forme espressive, esautorate del loro ruolo comunicativo, vanno ad assumere importanza in aspetti improduttivi della vita sociale: le feste, le cerimonie religiose, ecc. Un po' com'è avvenuto nello sport: una volta l'uomo correva per catturare la preda o per sfuggire al predatore, superati questi bisogni la corsa è rimasta quale elemento di un settore accessorio dell'attività umana; infatti, quando uno fa una cosa inutile si chiede se lo sta facendo per sport.

In un primo momento, e presso quelle comunità che hanno un'organizzazione sociale piuttosto semplice ancor oggi, la musica, al pari del linguaggio, viene ricordata, e tramandata, attraverso la memoria. Quando l'organizzazione sociale si fa più complessa, e quindi si fanno più complessi e vari anche tutti gli elementi che la caratterizzano, diventa però più difficile ricordare a memoria una data musica al fine di riprodurla; in primo luogo percha la struttura delle composizioni musicali diventa sempre più complessa e, in secondo luogo, percha il loro numero, e la loro differenziazione, tende continuamente ad aumentare.

Quindi, com'è già accaduto per il linguaggio, sorge il bisogno di creare dei segni convenzionali per scrivere la musica. Nel periodo di maggior splendore della musica scritta, e cioè negli anni che vanno dal 1600 al 1900, si è creata nella musica una divisione abissale, da una parte la musica colta e dall'altra la musica popolare. Nella musica medievale tale divisione non si era ancora manifestata e il menestrello che suonava nelle corti era lo stesso che seguiva gli eserciti e suonava nelle feste popolari. Caso mai la dissociazione, in quell'epoca, era fra musica religiosa e musica profana.

Con il rinascimento, e con lo sfarzo delle grandi corti, la situazione è destinata a cambiare. La maggior parte della gente non era scolarizzata e non sapeva scrivere, o sapeva scrivere a malapena, quindi non era assolutamente in grado di scrivere e leggere la musica. In conseguenza di ciò la musica popolare ha continuato a sopravvivere e a propagarsi facendo affidamento sul vecchio sistema di scrittura che è la memoria. Riflettendo su questo dato di fatto è facile capire perché la musica popolare dovesse essere più semplice e più povera, proprio per evitare di inceppare l'unico meccanismo in grado di garantirgli la sopravvivenza. Chi sarebbe stato in grado di ricordare a memoria un malloppo come le nove sinfonie di Beethoven? Credo nessuno. Naturalmente questa divisione netta non vuole significare che non ci sono state delle interconnessioni e degli scambi fra musica colta e musica popolare, la seconda ha spesso fatto propri alcuni motivi della prima che, viceversa, si è spesso nutrita, soprattutto nel suo periodo più tardo, di quelle che erano le tradizioni popolari.

Si introduce, a questo punto, un elemento posticcio come la divisione fra musica scritta e musica improvvisata. Il trombettista nero-americano Leo Smith, nel suo saggio Creative Music, scrive che "la musica improvvisata, nella forma più pura, si ha quando l'improvvisatore crea in quel dato momento, ricorrendo alla sua intelligenza e alla sua immaginazione, un arrangiamento di silenzio, suono e ritmo che non è mai stato udito prima e che non saro mai più udito dopo". Nonostante l'indiscutibile rigore del Leo Smith musicista, questa sua teorizzazione non è altro che utopia allo stato più puro. Chiunque suoni improvvisando, anche quando fa improvvisazione totale come il chitarrista inglese Derek Bailey, non può prescindere al 100% da quella forma di scrittura primordiale che è la memoria. Quindi la musica popolare che si è propagata, e conservata, basandosi sulla memoria può essere considerata una musica scritta.

Allo stesso modo in cui la musica colta che si è diffusa, e preservata, attraverso le partiture scritte è soggetta, di volta in volta che viene eseguita, a subire delle variazioni che la rendono sempre diversa. L'interpretazione dello spartito, le caratteristiche dell'orchestra esecutrice (o del musicista esecutore), gli errori esecutivi, l'ambiente dell'esecuzione sono tutti elementi che portano nella musica scritta quell'elemento, seppur minimo, di variabilità. Quindi, in pratica e al di là delle teorizzazioni, non esiste una musica totalmente scritta o totalmente improvvisata (a meno che non venga chiamato a suonare il Kaspar Hauser di Herzog), esistono però delle musiche che possono avvicinarsi ai due opposti limitando gli elementi di scrittura, o d'improvvisazione, a piccolissime percentuali.

Presso altre culture, ad esempio nella musica indiana, il rapporto scrittura-improvvisazione è stato affrontato e risolto in altri modi, ma non é il caso di allargare ulteriormente questa analisi. È invece importante notare come, fino a questo momento, l'unico sistema per usufruire della musica, colta o popolare che sia, è rappresentato dal concerto.

Le novità introdotte dalla società industriale e dalla meccanizzazione hanno cambiato, oltre alle caratteristiche della scrittura (compresa quella musicale), anche i connotati di tutte le altre forme espressive. È banale, ma necessario, prendere atto di come il cinema abbia soppiantato il teatro e la fotografia abbia fatto altrettanto con la pittura (in entrambi i casi non totalmente ma sicuramente in larga misura).

Allo stesso tempo è curioso notare come la sperimentazione, nel cosiddetto settore delle arti, non sia proprio all'avanguardia, come solitamente si vuole far intendere, ma segua a distanza quella, più proficua, relativa alle attività produttive (comprendendo in esse il settore degli armamenti). Ne è un esempio proprio l'uso delle macchine che, nella musica come nelle altre forme espressive, si è sviluppato molto tempo dopo rispetto agli altri ambiti sociali. Quindi, in realtà, l'ambiente delle arti è molto più conservatore (ed è bene non vedere questo termine solo nei suoi aspetti negativi) rispetto a quello dei mestieri. Ancor più conservatore appare il pubblico che, spesso, è restio ad 'affaticarsi' per intromettersi nei linguaggi artistici sperimentali.

Dietro a questa resistenza è possibile individuare anche l'affermarsi di una concezione che intende relegare l'espressione musicale all'unica funzione di sottofondo per i momenti di relax. Un'analisi seria delle sperimentazioni sonore dovrebbe partire dagli utilizzi che vengono fatti, o degli adattamenti che vengono apportati, sui vari tipi di tecnologie, o strumentazioni, utilizzate. Un musicista che, durante un concerto, piazza dei microfoni nell'ambiente e, rielaborando i suoni così ottenuti, miscela la sua musica agli umori del pubblico è stato preceduto, ad esempio, dagli artiglieri che, già nel corso della 1^ guerra mondiale, piazzavano dei microfoni nel territorio per registrare il punto di partenza dei colpi di cannone nemici e il punto di arrivo di quelli amici. I dati così ottenuti, una volta elaborati, servivano per individuare le posizioni nemiche e per correggere l'impostazione del fuoco amico.

La sperimentazione musicale, quindi, spesso è un elemento di avanguardia solo se circoscritta al suo limitato campo d'azione, mentre è un fenomeno di retroguardia che corre affannosamente per adeguarsi alle innovazioni tecnologiche, culturali e sociali se viene considerata in un ambito definibile come globale.

I nuovi sistemi di scrittura (o grafia) hanno rappresentato la trasformazione più sconvolgente accaduta in tutta la storia della musica. Vinile, nastro magnetico, compact disc, hard disc sono tutti sistemi che fanno piazza pulita di tutti i vecchi sistemi di scrittura, sia di tipo cartaceo che mnemonico.

Dal momento che la scolarizzazione si è elevata, e tutti sono in grado di accedere ai nuovi sistemi di scrittura, il primo risultato di questa modernizzazione è stato il ribaltamento totale dei concetti di musica colta, popolare, scritta e improvvisata. Dal momento che il musicista, con i nuovi sistemi di grafia, può arrivare al suo pubblico senza intermediari, quella che viene fissata su supporto può essere considerata scrittura allo stato puro? No, ovvero, ancora una volta, lo è solo teoricamente. Infatti, a seconda dell'ambiente in cui viene riprodotta, delle condizioni del supporto e del tipo di impianto stereofonico, quella che in partenza era una stessa musica suonero sempre diversa.

È però indubbio che si avvicina molto al concetto di scrittura allo stato puro. L'interpretazione di un brano, da parte del musicista che l'ha composto, saro sempre più vicina a quella che era la sua idea di quel brano rispetto a qualsiasi esecuzione affidata ad altri. Ma tutti questi restano comunque concetti astratti, cioè relativi a situazioni ideali dove non esistono produttori ed etichette discografiche che fanno pressione sul musicista per orientare la sua musica in una o nell'altra direzione. Ecco allora la grande contraddizione odierna, cioè quella relativa al disco che fa conoscere un musicista in tutto il mondo e nello stesso tempo trasforma la sua musica in merce. Il musicista che diffondeva la sua musica attraverso i concerti aveva un campo d'azione molto più limitato, se non voleva affidarsi all'esecuzione della sua musica da parte di altri, però proponeva la sua musica.

Oggi il musicista, o chi per lui, vende la sua musica. Sono due concetti piuttosto diversi. Certo, anche chi tornava dal concerto si portava casa, scritta nella memoria, quella musica ma era un tipo di scrittura molto più labile, rispetto a quella che può essere fatta oggi su un qualsiasi tipo di supporto, e poi era difficile trovare il sistema di riprodurla. Chi compra oggi un disco si porta a casa un tipo di scrittura molto più duratura e facilmente riproducibile.

La mercificazione della musica porta con se tutta una serie di nuove problematiche, fra le quali quelle relative alla sua distribuzione e alla sua vendita. Cioè, in quanto merce, la musica va soggetta alle leggi che regolano tutti i tipi di merce. L'abbassamento dei costi di produzione e la conquista di nuovi mercati, seppur non siano le uniche, sono le esigenze principali che assillano la nuova industria discografica. Se la conquista di nuovi mercati avviene attraverso la pubblicità e il lancio, sempre più frenetico, di nuove mode, per l'abbassamento dei costi di produzione ha avuto un ruolo importantissimo l'avvento del CD. È chiaro che un sistema di produzione industriale, e di vendita mercantile, privilegia quei prodotti che, indipendentemente dalla qualità, fanno guadagnare di più.

Ma non è detto che qualità e vendite non possano andare d'accordo; è successo in più occasioni e succede ancora, anche se sempre più raramente. In ogni caso, come avviene per tutte le merci, e indipendentemente dalla qualità, esistono dei prodotti di nicchia che la grande industria non può prendere in considerazione. Accanto ad essi ci sono anche prodotti commercialmente più forti che rimangono in circuiti di nicchia, magari perché i responsabili della grande industria, sbagliando, non ne percepiscono le potenzialità oppure perché l'autore è uno di quegli idealisti che vuole mantenere il controllo totale sulla propria musica.

A questo punto serve un inciso, la concentrazione dell'industria discografica in un numero sempre minore di grandi multinazionali rende sempre più difficile, da parte del musicista, l'imposizione delle proprie condizioni. Quindi sono chiari i motivi che portano alla nascita delle etichette indipendenti e dell'autoproduzione, la cui attività è penalizzata rispetto a quella delle multinazionali perché hanno minori mezzi tecnici a disposizione, minori possibilità di pubblicizzare il proprio prodotto, maggiori difficoltà nella distribuzione, ecc. Inoltre, in qualche modo, il produttore indipendente e autonomo, deve portare soldi nelle casse delle multinazionali, attraverso l'utilizzo dei supporti e degli strumenti di registrazione, ad esempio, che vengono comunque prodotti dai grandi trust.

Ed ecco che la grande divisione, un tempo elemento di contrapposizione fra musica colta e musica popolare, con il consolidarsi della civiltà industriale ha assunto una nuova fisionomia, quella che contrappone la produzione delle multinazionali alla piccola produzione indipendente. In un mondo diviso in nobiltà e popolino, la musica colta era la musica dei nobili (e del grande clero), mentre quella popolare era la musica del popolo (e del piccolo clero). Oggi che la divisione è fra ricchi e poveri, la musica non può che adeguarsi, seppure in ritardo (ma questo è già imlicito in quello che s'è già scritto parlando di sperimentazione), a un tale modello di differenziazione sociale, e quindi si divide in musica ricca e musica povera. Bernhard Günter, che si considera e può essere considerato un musicista colto, per esibirsi e per vendere i dischi utilizza gli stessi canali utilizzati da Pan Sonic, Mouse On Mars e Laika, che sono musicisti indubbiamente popolari.

Madonna e Beck, cioè la musica popolare per antonomasia, utilizzano invece altri canali. Addirittura si è generata confusione rispetto al significato del termine pop, che proviene dalla contrazione dell'inglese popular, la cui assegnazione non si sa bene in base a quale motivo viene decisa: "A chi vende di più? A chi fa una musica più melodica? A chi è più popolare presso il pubblico?" Una volta la divisione era semplice, la musica colta era quella che richiedeva un certo tipo di sofisticazione e difficoltà preparatorie e la musica popolare era invece povera di mezzi, semplice e facilmente riproducibile. Un po' come avviene nella cucina.

Oggi sono stati rovesciati i termini, non capisco in base a quale principio, per cui la musica dei Beatles è considerata più pop di quella dei Rolling Stones (e quella di Madonna è considerata più pop di quella dei Fugazi), se dovessimo decidere in base al vecchio criterio della sofisticazione (lo stesso ancor valido in culinaria) non ci sono dubbi che dovrebbe essere l'inverso. Ma anche l'ipotesi secondo cui il criterio utilizzato è quello delle vendite, o della popolarità, fa acqua, perché se così fosse i Pearl Jam dovrebbero essere considerati più pop degli Stereolab, mentre in realtà avviene il contrario. Quindi l'unico criterio che viene utilizzato oggi, nello stabilire ciò che è pop e ciò che non lo è, è quello della superficialità. Un minimo approfondimento porta infatti alla naturale constatazione fatta qualche riga indietro, per cui la divisione della musica in simili categorie non ha più alcun senso.

In definitiva è più facile trovare il pubblico di Jonathan Richman ai concerti di Glenn Branca che non a quelli degli U2. Riassumendo, nel medioevo la divisione all'interno della musica non era di tipo estetico ma riguardava i contenuti: religiosi da una parte e profani dall'altra. Nel periodo successivo, con l'affermarsi della nobiltà, la divisione assume un carattere prettamente estetico: musica popolare e musica colta, entrambe possono avere contenuti sia di tipo religioso che profano (quando non addirittura blasfemo).

Con l'affermarsi della civiltà industriale, e della globalizzazione, la contaminazione selvaggia (che io vedo in senso positivo) fra i vari generi porta alla creazione di una moltitudine di estetiche musicali, e quindi alla rimozione di estetiche dominanti, e quindi al superamento della divisione netta fra di esse. Nel frattempo viene però a crearsi una divisione di tipo nuovo che è la stessa che attraversa tutti gli altri settori della societo industriale e consumistica: da una parte i prodotti che vendono di più e dall'altra quelli che vendono di meno, con al centro tutta una serie di stadi intermedi che tendono a diminuire con l'accentrarsi delle ricchezze in un numero sempre minore di mani.

La nascita delle etichette indipendenti non è un fenomeno recentissimo ma risale agli albori dell'industria discografica e, spesso, ha radici di tipo politico, sociale e razziale. Billie Holiday incise Strange Fruit per una piccola etichetta indipendente, nel 1939, dal momento che il contenuto della canzone non veniva accettato dalla grande industria del disco, parlava dei linciaggi, e questo nonostante la cantante fosse già affermata da tempo. Diverso il discorso per Elvis Presley, che fu scoperto da una piccola etichetta indipendente e poi 'venduto' ad una major.

La RCA, per avere il cantante, pagò alla Sun una cifra che sul momento fu ritenuta molto alta, mentre col senno del poi, alla luce delle vendite che proseguono tuttora, quella cifra risultò essere una quisquiglia. Ecco così emergere quel tipo di etichetta indipendente o, ancor più appropriatamente, piccola impresa che, facendo forza su un apparato più snello, cerca di individuare musicisti che potrebbero esplodere, gli fa firmare dei contratti a medio-lungo termine e, quando ci indovina, si fa pagare salatamente, dalla major di turno interessata a quel musicista, la recessione del contratto. Un po' come avviene per i giocatori di football. Si sono addirittura registrati dei casi di sottomarchi, cioè piccole etichette che agiscono come indipendenti pur essendo, in realtà, proprietà di qualche major. Negli anni '60, con un mercato non ancora saturo e una produzione piuttosto limitata, esisteva una fetta di mercato consistente anche per le etichette indipendenti.

Le più importanti di esse hanno fatto veramente storia, sia per l'importanza dei musicisti che facevano incidere che per l'impostazione grafica delle confezione (elegantemente sobria), e sono sicuramente da individuare nella newyorchese ESP e nella texana International Artists. Un primo cambiamento avviene con l'esplosione della new wave e dei video clips. L'invasione del mercato si fa più massiccia, con conseguente abbassamento medio delle vendite, tant'è che la produzione indipendente, per poter sopravvivere, deve individuare le possibilito di poter abbassare il costo di produzione dei propri manufatti, e le individua nel rilancio dei singoli, negli EP, negli split e, soprattutto, nelle cassette. Non c'è mai stata una produzione così elevata di cassette come negli anni '80.

Comunque, intorno alla metà del decennio, tutto quel fermento porta alla nascita di alcune delle etichette indipendenti più importanti di sempre, tipo la SST o la Dishord. Quest'ultima, di cui è co-proprietario Ian MacKaye dei Fugazi, diventero con gli anni un piccolo impero. Ed ecco che si introduce un nuovo elemento, l'etichetta indipendente gestita direttamente dai musicisti e l'autoproduzione.

Quando si parla di musica indipendente si dovrebbero fare dei distinguo. Indipendente da cosa: dalle multinazionali del disco o dall'andamento del mercato? Analizzando bene, visto che i supporti vengono comunque prodotti dai grandi trust, oggi non esiste l'indipendenza dalle multinazionali del disco, a meno che un musicista non decida di fare solo dei concerti senza registrare nulla.

Diverso è il discorso sull'indipendenza dall'andamento del mercato, e se questa, spesso ma non sempre, è riscontrabile nell'autoproduzione può comunque succedere di ritrovarla anche all'interno delle cosiddette major. È infatti possibile che un errore di valutazione dell'etichetta, il ghiribizzo di un manager o una manovra astuta da parte del musicista, portino una major a produrre un disco che, anche senza essere indovini, saro un flop commerciale assoluto. Proverbiali sono i casi di Metal Machine Music (1975), pubblicato da Lou Reed su RCA, e del più recente Zero Tolerance For Silence (1992) di Pat Metheny, pubblicato dalla Geffen. Se, in linea di massima, le grandi etichette cercano di pubblicare in virtù della commerciabilità di quel prodotto, e non della sua qualità, la questione si pone con ancora maggior urgenza per le piccole etichette indipendenti. Quando la grande multinazionale colleziona una serie di flop si ridimensiona nei confronti della concorrenza mentre la piccola etichetta, a parito di perdite, subisce il tracollo.

Queste problematiche coinvolgono anche la distribuzione. Il piccolo negozio che sopravviveva grazie alle vendite relative alla musica classica e mainstream, e con quel guadagno sicuro si permetteva di trattare anche le musiche di nicchia, con l'apertura dei grossi centri commerciali, spesso emanazione di catene nazionali o internazionali che possono permettersi di trattare la musica classica e mainstream a prezzi concorrenziali, è costretto a chiudere dando così un'altra botta alla distribuzione indipendente. Da questa difficoltà nasce la crisi delle stesse etichette indipendenti che, o vengono inglobate dai grossi gruppi oppure chiudono.

E da qui nasce il fenomeno dell'autoproduzione su larga scala, cioè l'espandersi delle etichette gestite direttamente dai musicisti che intendono garantire indipendenza alla propria musica o non sono sufficientemente commerciabili per essere prodotti dalle grandi major. L'autoproduzione, negli anni '60, ha vissuto un buon momento che però, come era successo per Billie Holiday, era legato a motivazioni essenzialmente politiche e/o ideologiche. Di conseguenza era anche indirizzata verso un modo alternativo di effettuare la distribuzione dei dischi.

È il caso dei Rag Baby di Country Joe che erano venduti in qualito di riviste politiche alle manifestazioni, naturalmente a prezzi bassissimi, o del disco d'esordio dei Deviants che fu distribuito come allegato alla rivista alternativa International Times. Uno dei primi musicisti a fare dell'autoproduzione vera e propria è stato Harry Partch attraverso la sua etichetta personale Gate 5 Records. Ancora più importante è la figura di Sun Ra, che ha quasi sempre autoprodotto i propri dischi vendendoli ai concerti. Da non dimenticare, sulla scia di queste prime esperienze, realtà tipiche della produzione e della distribuzione alternativa quali i Crass e gli EX, due gruppi che hanno scelto fin dall'inizio la completa autonomia gestionale della propria musica e della propria immagine. Il sottobosco indipendente contemporaneo sembra essere più prossimo a questi primi rudimenti di autoproduzione, per quanto concerne i sistemi di distribuzione e senza adottarne le motivazioni strettamente politiche, che non alle etichette indipendenti propriamente intese.

L'affermazione del CD è uno dei coefficienti che ha creato nuovi problemi alla produzione indipendente e ha rafforzato il potere delle multinazionali. Quella del CD è stata, in realtà, una scelta quasi obbligata dall'esplosione commerciale della new wave, dal momento che, anche da un punto di vista pratico, era diventato impossibile entrare nei negozi e spulciare fra le migliaia di vinili presenti, senza poi considerare i problemi relativi allo spazio. L'abbassamento dei costi di produzione del CD ha portato, poi, a un incremento della produzione, si è verificato quindi un ulteriore aumento dei prodotti che ha portato a un ulteriore abbassamento nella media delle copie vendute per singolo titolo.

Senza considerare il fatto che la possibilità di sdoppiare il CD ha portato all'abbassamento delle copie complessivamente vendute. Un LP poteva essere ricopiato solo su cassetta, quindi in un supporto inferiore qualitativamente oltrechè destinato a subire in modo irreparabile i danni dell'usura. Un CD può essere masterizzato su CD-R, e si ottiene così una copia che possiamo considerare quasi paritaria con l'originale. Non esistono statistiche in proposito, ma si può supporre che da ogni CD acquistato se ne facciano poi un minimo di cinque copie. La lotta a questo meccanismo non è così rigida come sembra anche perché, se veramente volessero troncare le masterizzazioni, basterebbe mettere dei blocchi nelle copie originali. Per capire realmente come funziona andrebbero fatti un po' di conti sui guadagni reali.

Andrebbe cioè stabilito qual è, per l'etichetta, il guadagno netto su un CD e qual è invece il guadagno su un CD registrabile, andrebbe poi considerato che non tutti quelli che masterizzano sono potenziali acquirenti di quel CD e quindi andrebbero tirate le somme. Sarebbe così possibile comprendere se l'etichetta produttrice guadagna più a vendere tre copie di un CD o guadagna più a vendere una sola copia di quel CD, ma con l'aggiunta di un tot di supporti vuoti. Potrebbero venirne fuori dei dati interessanti, tipo la constatazione che la vendita delle copie originali è diretta, sempre di più, verso un mercato di tipo collezionistico, mentre la fetta di mercato più grossa, rappresentata dagli ascoltatori usa e getta, viene considerata soprattutto come acquirente di supporti vuoti.

Questa è una supposizione tutt'altro che fantascientifica, com'è dimostrato dall'uscita di CD con tre o quattro copertine diverse oppure con una diversa selezione dei brani, due particolari che fanno pensare proprio a una particolare attenzione rivolta verso un mercato di tipo collezionistico. Questo, comunque, è un elemento che può tornare utile all'autoproduzione, laddove questa riesca a produrre oggetti validi, oltre che musicalmente, anche da un punto di vista collezionistico. Chi lavora su produzioni limitate è, in tal senso, indubbiamente avvantaggiato.

L'abbassamento nella media delle copie vendute, il rapporto potrebbe essere di 1 compact ogni 10 vinili (cioè chi vendeva 3000 copie oggi ne vende 300), ha costretto infine l'autoproduzione a trovare nuove strade per poter sopravvivere. Una di queste nuove strade si chiama CD-R, ma non perché l'utilizzazione di tale supporto costa di meno, dal momento che è dimostrato come il CD-R, a parità di copie prodotte e soprattutto se ben fatto, costa più del CD.

Le motivazioni che stanno dietro alla scelta del CD-R riguardano invece i requisiti di un mercato che, per un certo tipo di prodotto, è ormai ridotto alle 100-200 copie vendute. La produzione industriale del CD, visto che il costo è concentrato nella matrice, inizia ad essere conveniente solo dalle 500 copie in su. Quindi, per chi vuol produrre limitatamente alle 100-300 copie, non esiste altra scelta che quella del CD-R. A questo punto è indispensabile affrontare l'argomento della qualità. La qualità del supporto CD-R sembrerebbe essere leggermente inferiore, dato che non c'è la patinatura protettiva finale, non da un punto di vista qualitativo del suono ma per ciò che concerne la resistenza del supporto stesso.

Dal punto di vista dei contenuti, facendo anche un parallelo con altri tipi di prodotti (dai vini ai formaggi), c'è invece da credere che la piccola produzione artigianale sia superiore a quella industriale. Sicuramente c'è da rilevare, seppure questo non sia un concetto generalizzabile, come sia il musicista stesso che, nel caso dell'autoproduzione, confeziona la propria musica dedicandogli, quindi, una cura particolare.

Un accenno finale va fatto ai nuovi sistemi di distribuzione che sono quelli via rete, anche se in questo caso la qualità lascia ancora a desiderare e non è chiaro come la cosa potrà evolversi. Comunque sono sempre più numerosi i musicisti che si avvalgono di questo sistema, magari non per vendere ma sicuramente per farsi conoscere. La possibilità di ascoltare preventivamente un disco in Mp3 può tornare utile anche all'appassionato che, vista la sempre maggiore difficoltà nel trovare la produzione più underground, deve fare gli acquisti a scatola chiusa ordinando a distanza (via e-mail o via telefono).

È innegabile che tutto ciò, inflazione di CD e Mp3, sta svalutando il valore del disco e, contemporaneamente, restituendo ai concerti una posizione di centralità. In poche parole si stanno invertendo i ruoli, mentre negli anni più ruggenti della cultura discografica i concerti servivano come promozione al disco sembra che la nuova tendenza vada in direzione opposta, cioè, soprattutto per quanto concerne l'Mp3, il supporto ha un ruolo di promozione al musicista e alle sue prestazioni concertistiche (o installatorie).